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precari si nasce

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Precari si nasce…
“Precario?” esclamò il vecchio seduto su una sedia, davanti alla porta di casa, al fresco della sera. .
“E che vuol dire precario?” chiese.
“E’ una parola “moderna”,nonno. Significa che hai una cosa, un lavoro..ma non sai quanto durerà”.
“Allora anch’io sono..come si dice? precario!” sorrise il nonno, dondolandosi sulla sedia di paglia. Poi si rivolse al nipote con lo sguardo di chi la sa lunga sulla vita, di chi ha visto scorrere fiumi di gioie e di dolori.
“La guerra era appena finita quando sono nato”- cominciò il nonno: “Mio padre emigrò in America da dove non è più tornato. Mia madre invece gli rimase fedele. Lavorava come fornaia. La mattina io mi alzavo alle quattro e la aiutavo a fare il pane e poi in bicicletta mi caricavo le ceste e le distribuivo in paese. C’era chi non aveva neanche i soldi per comprarlo e lo faceva in casa e veniva solo a chiedere di infornarlo per pochi spiccioli. Poi cominciai a lavorare a giornata in campagna.
“Ora questo lavoro lo fanno gli immigrati nonno”.
“E prima lo facevamo noi. Alla vendemmia era una festa. Le donne lavoravano cantando con i fazzoletti in testa per ripararsi dal sole. Ci passavano i tini e noi uomini li caricavamo sui trattori e li portavamo alla cantina. Là ho incontrato tua nonna. Era la prima a passarmi i tini. Forse perché ogni volta ci potevamo scambiare uno sguardo..ci innamorammo sotto il tendone.
“E poi ?”
“Poi decisi di partire. Un amico mi disse di andare con lui in Lussemburgo in un’acciaieria. Si lavorava come muli in quel dannato posto.”.
“ E la nonna?”
“Tornai in paese e chiesi di sposarla e me la portai là”.
“ E come faceste?”
“Facemmo quattro figli.”
“Coraggiosa la nonna: ”
“Fu dura. Dopo tre anni in acciaieria mi venne una brutta malattia ai polmoni e rischiai di morire. Tua nonna supplicò cielo e terra e non mi lasciò un minuto. Imparò anche a fare le punture per non pagare l’infermiera…ho ancora i segni…scherzo sai. Io guarii grazie a lei e alla sua fede. Però persi il lavoro”.
“E allora?”
“E allora ce ne tornammo qua, dove c’erano la famiglia e gli amici. Ricominciai nei campi. La nonna faceva la sarta e riuscimmo a comprarci un pezzo di vigna “.
“E andò meglio?”
“Si e no. Ricordo un anno la grandine distrusse tutto. Era il 13 settembre, qualche giorno prima della vendemmia che da noi si fa più tardi”.
“Raccolti sempre precari, nonno.”
“Precari sempre, figlio mio. Le cose non vanno sempre male, però. Se non ti disperi arriva l’abbondanza. Ogni mattina vedi che tempo fa. Sole o pioggia? Che ti riserva il cielo? Ma stai sicuro che il temporale passa. La pioggia distrugge e rigenera. Dopo il brutto raccolto ci mettemmo insieme un po’ di contadini e fondammo una cooperativa e la storia la sai. Tuo padre e i tuoi zii ci lavorano ancora e tu?
“A me del vino dà fastidio anche l’odore. Io voglio fare il professore”.
“Il vino profuma di sudore e di sacrificio. Nel vino c’è il profumo della tua famiglia. Forse dovresti fare pace con tuo padre.. Gli affetti non sono mai precari. Il lavoro e la salute si. Ma i padri e le madri no. L’amore non è precario”.
“Nonno…la mia ragazza mi ha lasciato.!”
“Voi confondete la fatica con l’amore. E l’amore è sacrificio, è un lavoro anche quello, cosa credi.”.
La nonna si affacciò sull’uscio. “E’ pronta la cena Mimì’, entrate.”
Antonio guardò il viso della nonna, sempre al lavoro, sempre pronta a servire. Un viso percorso dalle rughe profonde e gli occhietti pieni di orgoglio nel guardare il suo primo nipote. Precario o no, lui era il suo diletto. Gli aveva preparato il suo piatto preferito. In quel villaggio tutto profumava di sole e di cucina e cancellava paure e solitudine. Il vecchio si alzò e trascinò la sedia. Poi sarebbe andato in piazza a incontrare gli amici, come ogni sera, davanti al bar. Antonio si alzò anche lui, ed entrò in casa, passò davanti allo scaffale dei libri e vide un vecchio vocabolario. Cercò la parola “precarietà” e scoprì che significa “preghiera, supplica”.
“Nonno, lo sai che precarietà significa supplica, preghiera?”
“Te l’ho detto che non è una cosa moderna. Anch’io chiedo ogni giorno al Cielo un giorno in più. Da solo non me lo posso dare.”
“ Vuoi un goccio di vino?” chiese incerta la nonna.
Antonio esitò: “Solo un goccio nonna grazie”. Davanti a quel bicchiere di vino rosso pensò a suo padre. Forse lo avrebbe chiamato. Qual era, in fondo, la differenza tra lui e il nonno? Suo nonno aveva sempre ricominciato, aveva sperato anche davanti alla morte. La speranza, ecco cosa era morta in lui o forse qualcosa aveva cospirato a ucciderla. Nessuno parla più di speranza ai giorni nostri. Tempi moderni, più facili e più disperati. Sì, forse avrebbe chiamato suo padre, Isabella o i suoi amici. Forse si sarebbe di nuovo sorpreso.
“Brindiamo Antò!”
“Al futuro?”
“No. Al presente.. di noi precari” sorrise ironico il nonno. I bicchieri tintinnarono mentre le mani rugose del vecchio sfioravano quelle bianche e morbide del nipote, carezzandogli di speranza la pelle e il cuore.

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